Comune di Pieve Santo Stefano

La Città del Diario occupa una superficie di 155 chilometri quadrati e i suoi abitanti superano le tremila unità. Prossima all'estremità orientale della provincia di Arezzo e, quindi, della regione Toscana, posta in un bacino naturale a 433 metri di altitudine sul livello del mare, è la prima conca disegnata dal fiume Tevere, che nasce pochi chilometri più a nord, a quota 1268 metri, nel versante romagnolo del monte Fumaiolo. Situata nel centro geografico della Valle Tiberina, il solo comune di Sansepolcro la separa a sud dall'Umbria, le sole circoscrizioni di Badia Tedalda e Sestino la separano ad est dalle Marche e il solo «giogo di che Tever si diserra» (Dante, Inferno, XXVII, 30) la separa a nord dall'Emilia Romagna. L'origine del paese si perde nella notte dei tempi, ma dai rinvenimenti archeologici nel territorio comunale possiamo essere certi che una popolazione stabile esisteva da noi fin dalla Preistoria. Tracce di un insediamento risalente al periodo compreso fra il Neolitico e l'Eneolitico sono state portate alla luce in località La Consuma, mentre un altro insediamento databile all'Età del Bronzo è stato trovato in località Poggiolo di Madonnuccia; entrambe le località si trovano nella parte meridionale del Comune. Un sito archeologico di epoca etrusca (IV, III secolo a.C.) è stato scoperto a Tizzano; invece, a Pietralba, in un boschetto, si possono ammirare resti di un "lucus" di difficile datazione, probabilmente di origine umbra. Avvicinandosi all'Epoca Romana le tracce diventano più numerose. Una statuetta in bronzo è stata rinvenuta a Montalone, ove forse sorgeva un santuario pre - romano, e una necropoli è stata segnalata a Vilalba. Di quest'Epoca restano soprattutto i ruderi di alcuni ponti che traversavano il Tevere, segno che la zona era assai transitata. I resti di questi ponti si vedono ancora al Pozzale, a Formole, a La Consuma e a Sigliano (in quest'ultima località ne era stato costruito uno con ben cinque arcate). Sopra questi passavano strade e nel nostro territorio rimangono i tracciati di sei arterie. A Sigliano correva la "Ariminensis", importante bretella che univa Arezzo con Rimini e valicava l'Appennino al Passo di Viamaggio ("Via maior"). Lungo questi tracciati sorgevano dei piccoli villaggi con una popolazione stabile. A Sigliano, nel 1919, durante il rifacimento della chiesa, fu scoperto un cippo funerario con iscrizione sotto i pavimenti dell'antica pieve, segno che l'edificio prima era stato un tempio pagano e poi cristiano. Intanto tutta la zona stava diventando un centro importante per il legname, in quanto i nostri boschi fornivano a Roma legna per la costruzione di navi, templi e abitazioni. I tronchi venivano inviati a Roma lungo il corso del Tevere grazie alla "fluitazione", un sistema inventato per far diminuire il costo e le difficoltà del trasporto. Per uniformare il corso del fiume e non trovare zone di secca che potevano fermare la discesa degli alberi, furono costruite delle "piscine", ossia delle briglie. Ruderi di queste si scorgevano, in passato, a Valsavignone, Formole e sotto Montedoglio. Sicuramente anche nel sito ove ora si trova il Capoluogo sorse un villaggio, in quanto il luogo si trova alla confluenza del Tevere con il torrente Ancione, sito in cui il traffico dei legnami doveva essere notevole. Ancora oggi non è emerso alcun reperto di quest'epoca. Solo nel 1636 fu rinvenuta una lapide di marmo, con iscrizione di epoca romana, durante i restauri della chiesa della Madonna del Colledestro, un antico tempio che sorge tuttora a un chilometro dal Capoluogo. L'iscrizione, ora perduta ma ricopiata fedelmente, diceva che un certo Publio Sulpicio e sua moglie Cellina avevano eretto un tempio al dio Tevere e alle Ninfe. Si dà per scontato che ove sorgeva un tempio esistesse anche un villaggio. Al tempo della riorganizzazione amministrativa dell'Italia, operata da Augusto, il territorio fu inglobato nel "Municipium" di Arezzo, che faceva parte della VII Regio "Etruria".
Caduto l'Impero Romano d'Occidente (476), l'Italia fu dominio di Odoacre (476, 493), re degli Eruli, e poi della dinastia dei re degli Ostrogoti. Divenuto Giustiniano imperatore romano d'Oriente (527), questi decise di riconquistare alcune regioni dell'Occidente, tra le quali l'Italia. Fu così che ebbe inizio la guerra Greco Gotica, che per diciotto anni (535, 553) insanguinò la nostra Penisola. Terminata la lotta, l'Imperatore, da saggio uomo politico qual era, decise di risistemare anche la divisione amministrativa in Italia, erigendo nuove province e sistemando meglio quelle vecchie. Fu così creata (554) la provincia delle "Alpes Appenninae", che comprendeva gli attuali territori del Montefeltro, di Sarsina, di Bagno di Romagna e dell'Alta Valle del Tevere. Nel frattempo il Cristianesimo era giunto anche nelle nostre contrade. Ad Arezzo la diocesi fu eretta nel IV secolo e, probabilmente, ne faceva parte anche il territorio di Pieve, visto che le circoscrizioni ecclesiastiche antiche ricalcavano i confini dei vecchi Municipi. Forse la "buona novella" può essere a noi giunta da evangelizzatori che risalivano il corso del Tevere da Roma. Nel 568, i Longobardi invadono l'Italia dal Friuli e raggiungono Pavia, che diventa la capitale del loro Regno. Poi dilagano verso Sud, occupando la Toscana e quasi tutta la Penisola tra Spoleto e il Mar Ionio. I Bizantini si ritirano sulle coste. Nel Centro Italia essi conservano solo la Romagna e il Ducato Romano. Nel territorio valtiberino i Longobardi giungono attorno al 570, essendo diretti alla conquista del Meridione. Intanto gli Imperiali cercano di riorganizzare le proprie difese. Nel 575, essi abbandonano Arezzo, attestandosi sulle colline sovrastanti la città. Con grandi sforzi riescono a riprendere il controllo di un corridoio che unisce Ravenna con Roma: il territorio pievano faceva parte di questo corridoio. Le varie province vengono riorganizzate militarmente. Anche dal punto di vista religioso si ha un sostanziale cambiamento. La Valtiberina passa dalla diocesi di Arezzo (occupata dai Longobardi) a quella di Città di Castello (bizantina), eretta proprio nel VII secolo. I Bizantini sistemano nelle nostre zone una linea difensiva che parte dall'Alpe di Serra, prosegue per l'Alpe di Catenaia e termina sull'Alpe di Poti. Una nuova spinta offensiva dei Longobardi si ha sotto il regno di Rotari (636, 652). Nel 640, i Bizantini sono costretti ad arretrare di molto la linea di difesa: essa ora parte dalla Vallesanta, passa per Montalone, segue il corso del Singerna e poi prosegue per Montedoglio, fino alla pianura che divide Anghiari da Sansepolcro. Nei territori occupati, i Longobardi fondano molte colonie di militari. Ma il primo documento che parla esplicitamente di Pieve è un rogito del 723, in cui si legge che Tedaldo, signore di "Tiphernum" (Città di Castello), "Suppetia" e della "Massa Trabaria", dona ai monaci benedettini un monastero da lui costruito a "Cerbarolum" (Cerbaiolo), il celebre cenobio tuttora esistente. Il manoscritto è importante per tre motivi: 1) nell'intestazione con la data si menziona anche il nome dell'imperatore Leone III detto l'Isaurico (717, 741), segno che Tedaldo era un signore devoto a Bisanzio; 2) Cerbaiolo viene posto in Umbria e non in Toscana, segno che questi luoghi erano passati sia civilmente che religiosamente ai Bizantini; 3) Pieve viene menzionata col nome di "Suppetia", attestando che già esisteva inequivocabilmente un paese. A proposito di questo nome, alcuni storici del passato, lo facevano derivare dal verbo latino "suppeditare", che tradotto significa "inviare, fornire" e riferito all'invio dei tronchi di alberi a Roma lungo il Tevere. Il medesimo verbo, usato intransitivamente, significa "essere in abbondanza", sempre riferito alla grande quantità di legname rappresentata dai nostri boschi. In altri documenti più tardi, il toponimo "Suppetia" evolve in "Sulpitia", non si sa se per corruzione formale o perché il nome deriva direttamente da quel Publio Sulpicio menzionato nella lapide ritrovata nella chiesa della Madonna del Colledestro. Ma è sotto Liutprando (712, 744), che i Longobardi occupano il nostro territorio. Il re, negli anni attorno al 726/730, attacca più volte le terre della Pentapoli e dell'Esarcato. Ormai i Bizantini conservano a stento solo Ravenna e lasciano invadere anche la Valtiberina. Anche a Pieve ora sorgono colonie militari longobarde. Il loro dominio come popolo durò però per poco. Nel 773, Carlo Magno invade l'Italia dalle Alpi Occidentali, occupa Pavia e, l'anno dopo, s'incorona re dei Longobardi. È la fine di questo popolo guerriero. D'ora innanzi la sua popolazione si mischierà con quella autoctona e perderà la propria identità. Ma è proprio un longobardo che parla esplicitamente di Pieve per la seconda volta: Paolo Diacono (720, 799 ca.), nella sua "HistoriaLangobardorum", descrive i confini della già accennata provincia bizantina delle "Alpes Appenninae" e attesta che in una porzione di essa si trova un posto chiamato "oppidum Verona". Da documenti posteriori, di cui parleremo in seguito, sappiamo che l'Alta Valtiberina si chiamava a quell'epoca "Massa Verona", quindi possiamo dire che "Verona" era il nome di Pieve in quel periodo. L' "oppidum" era un borgo fortificato, più grande del "vicus" o del "castrum", quindi anche la popolazione che vi abitava non doveva essere poca. È da notare che il cambiamento da "Suppetia" a "Verona" si è verificato quando i Longobardi sono succeduti ai Bizantini; ancora però non ci è noto il perché di questa metamorfosi toponomastica. Passano due secoli prima di ritrovare un cenno sopra il paese. Intanto l'Italia ha vissuto varie vicissitudini e la dinastia dei Carolingi è terminata. La penisola è ora comandata dagli Imperatori germanici della dinastia di Sassonia. Uno di essi, Ottone I il Grande (912, 973), dopo essere divenuto Re di Germania (936), s'incorona Re d'Italia (951) e infine Imperatore (962). Il nuovo Sovrano concede a un suo fedele collaboratore, Goffredo d'Ildebrando, una vasta zona dell'Appennino Tosco–Romagnolo, tra cui la "Massa Verona". Il diploma, scritto a Ostia il 7 Dicembre 967, traccia con esattezza anche i confini della "Massa": la foresta di Caprile, il Montefeltro, Bagno di Romagna, il Monte della Verna e il Monte Calvano. Il capoluogo di questo territorio è l'"oppidumVeronae", mentre Goffredo è il capostipite della famiglia comitale di Montedoglio, che per secoli signoreggerà la Valtiberina. Nel medesimo documento, queste terre risultano trovarsi nel Contado d'Arezzo, anche se, spiritualmente, dipendono sempre dal Vescovo di Città di Castello. Passano altri due secoli, prima di risentire il nome di Pieve. Frattanto i conti di Montedoglio governano il paese. Una Contessa di questa dinastia, Matilde, figlia di Pier Simoncione, incita gli abitanti dei castelli circonvicini a venire a risiedere nel borgo, promettendo esenzioni e privilegi, tanto che il paese inizia a essere chiamato "Castelfranco". Matilde inizia a costruire la prima cerchia di mura, un cassero e un palazzo, sede del governatore del luogo. Fa costruire anche una chiesa, chiamata del Buon Gesù, visto che la vecchia pieve dedicata a Santo Stefano sorge fuori dalle mura castellane, in località oggi detta "Pieve Rotta", alle falde del Poggio di Stantino. Questa prima cinta correva lungo le attuali Vie Arezzo e Antiche Prigioni, mentre la porta si apriva ove oggi c'è l'arco del palazzo comunale. Due torri erano state erette: una vicino al Ponte Vecchio e un'altra ove oggi si trova la Torre Civica. Tutte queste opere si desume che siano state realizzate nella seconda metà del XII secolo, in quanto una lapide, visibile ancora nell'Ottocento, sita nella chiesa del Buon Gesù e datata 1193, parlava di questa contessa Matilde, che, al momento della morte, nominava padrone del paese e delle adiacenze l'Arciprete, che doveva governare col consiglio di dodici popolani. A tal proposito è da notare che il titolo di Arciprete è riservato ai pievani di Santo Stefano da tempi antichissimi e denota che il presbitero era a capo di un gruppo di sacerdoti, viventi assieme in comunità. Nel nostro territorio, altre due chiese erano insignite del titolo di pieve: Telena (Sigliano) e Corliano. Nel 1216 passò per il nostro borgo S. Francesco, diretto, per la terza volta, alla Verna. La santità dell'Uomo era già nota ai Pievani, che, entusiasticamente, gli offrirono in dono il monastero di Cerbaiolo, abbandonato da tempo dai Benedettini. Il Santo accettò e, dal 1218, l'antico cenobio fu abitato dai Frati Minori. L'autonomia degli abitanti di Pieve era invisa però a molti e, di conseguenza, il territorio era spesso oggetto di scorrerie, specialmente ad opera dei biturgensi. Il 25 novembre 1220, Federico II, Imperatore e Re di Sicilia, prende Pieve sotto la sua sovrana protezione, nominando l'arciprete Guido padrone del paese. Una parte dei proventi derivanti dai mercati che si tengono nel borgo sarà devoluta alla Corte cesarea. A questo periodo risale l'antico sigillo parrocchiale in sui si trova scritto "SigillumUniversitatisVeronae": gli Arcipreti possiedono anche il potere temporale sul paese. La protezione imperiale poco servì ai Pievani. Le città di Firenze e Perugia (guelfe) avevano messo gli occhi sulla Valle del Tevere, mentre Arezzo (ghibellina) era gelosa delle terre che facevano parte del suo Contado. In più, i vescovi tifernati erano in lotta cogli abati biturgensi, in quanto quest'ultimi tendevano a scrollarsi di dosso l'autorità episcopale. Gli abitanti di Pieve, ossequiosi del Vescovo castellano, dovevano sempre subire gli attacchi che quelli di Sansepolcro portavano nelle contrade. Visto che i presuli tifernati non inviavano aiuti necessari per fronteggiare queste scorribande, l'arciprete Benvenuto, il 4 marzo 1255, consegnò il possesso del paese al Comune di Arezzo, il quale s'impegnò a difendere il medesimo da qualsivoglia nemico. L'accordo indispettì tanto i biturgensi quanto i fiorentini. I primi, nel 1257, danneggiarono il castello di Pieve e distrussero quello di Monteverde. I secondi, nel 1259, alleati del Conte di Montedoglio, disfecero persino le mura del castello. I Pievani, nel 1263, per ritorsione, effettuarono alcune incursioni nel territorio di Sansepolcro, ma i borghesi, in numero di mille, attaccarono a loro volta e portarono ovunque distruzione e morte. I Pievani, allora, dopo aver inutilmente chiesto aiuto al Comune di Arezzo, che, in ossequio ai patti del 1255 doveva proteggere il paese, decisero di rivolgersi a Guglielmino Ubertini, energico Vescovo di Arezzo. Il 29 ottobre 1264, a Bibbiena, i rappresentanti pievani siglano un accordo col presule, che, in cambio del pieno dominio sul paese, s'impegna a costruire un grande e forte castello con due porte e un profondo fossato. Il maniero sorgerà ove ora sono le attuali Piazze S. Stefano e Fanfani. Il nuovo borgo si dovrà chiamare "Castel S. Donato", in onore del Santo vescovo, Patrono di Arezzo. Il 28 agosto 1266, il medesimo Vescovo, riconosciute giuste le ragioni del Comune di Arezzo che considerava Pieve suo territorio, cede i suoi diritti alla Città. Comunque, i Pievani ora si sentono protetti e decidono anche di darsi, per la prima volta, i propri Statuti (1269). Ma la tranquillità fu di brevissima durata. La guelfa Perugia, alleata a Città di Castello, mal vedeva l'Alta Valtiberina in mano dei ghibellini aretini. Presi accordi col Comune di Sansepolcro, che era appena nato contro la volontà degli Abati camaldolesi, gli umbri costituirono un possente esercito e conquistarono, saccheggiarono e distrussero "Castel S. Donato" e altri castelli circonvicini. Per spregio ribattezzarono il posto "Castelfranco". I Pievani ricorsero allora ad Arezzo, che mandò un forte esercito ad assediare Sansepolcro, che si arrese. Nella pace stipulata (1269), i borghesi s'impegnarono a risarcire il ponte e il castello di Pieve; la chiesa parrocchiale doveva essere ricostruita entro le mura, in quanto l'antica pieve era insicura, sorgendo in aperta campagna. Seguirono vent'anni di relativa calma, finchè si giunse all'11 giugno 1289, quando i ghibellini aretini furono sonoramente sconfitti a Campaldino, presso Poppi, dai guelfi fiorentini. In questa battaglia morì anche l'indomito vescovo Guglielmino. La città fu in preda al caos, divisa da lotte intestine tra le principali casate. Nel 1292, fu eletto Podestà di Arezzo Uguccione della Faggiola (1250, 1319), un personaggio notissimo nelle nostre contrade. Nato a Casteldelci da nobile famiglia, governava la parte settentrionale del nostro territorio comunale come Vicario dell'Abbazia camaldolese del Trivio di Monte Coronaro. In breve riconquistò tutti i paesi che erano già stati del Comune di Arezzo e che, approfittando del momento di confusione seguito alla sconfitta di Campaldino, erano ritornati autonomi. Nel 1301 rioccupò sia la Pieve che il Borgo. In breve divenne il campione dei Ghibellini italiani. Fino al 1310 fu signore incontrastato di Arezzo, ma in quell'anno dovette lasciare la città, in cui stava nascendo l'astro dei Tarlati. Uguccione diventò in seguito signore di Pisa e di Lucca, sempre operando in nome dell'Imperatore. Difatti Ludovico il Bavaro, sceso in Italia, consegno al proprio figlio Neri, per la sua fedeltà, il possesso di un'infinità di terre e castelli, tra cui figura anche Pieve (15 Febbraio 1316). Frattanto, ad Arezzo era stato eletto Vescovo Guido Tarlati (1313). Il presule, più adatto a maneggiare la spada che il pastorale, era stato nominato anche Capitano Generale e stava riconquistando tutte le terre perdute, aiutato da suo fratello Piero, detto "Saccone". Nel 1318 rioccupò Pieve, che divenne capoluogo del Viscontado della Val di Verona, con un Visconte che governava in nome di Pier Saccone. Il Viscontado dipendeva dal Giudice Civile di Porta Crucifera. Nel 1323, anche Città di Castello era stata conquistata dai Tarlati. Ora la potenza del Vescovo faceva paura e papa Giovanni XXII gli lanciò la scomunica (12 Aprile 1324). Ma il Papa risiedeva ad Avignone ed era in urto con l'imperatore Ludovico il Bavaro, del quale Guido era un fedele seguace. Nel 1327, Ludovico riconobbe al Tarlati tutte le conquiste operate finora, a cui poi si aggiunse Verghereto, caduta il 18 agosto 1327. Ma il medesimo anno, il 21 ottobre, il Vescovo, improvvisamente, morì. Il fratello Piero ne raccolse l'eredità, ma questi era meno accorto di Guido ed era chiamato "Saccone" proprio per la sua avidità. Ora la compagine guelfa si poteva riunire. Perugia e Firenze si allearono e scatenarono una grande offensiva contro Arezzo, che cadde inesorabilmente. Piero Tarlati vendette a Firenze la sua città per 60.000 fiorini d'oro (7 marzo 1337). Pieve passò a Perugia, mentre Anghiari e Caprese toccarono a Firenze, assieme ai castelli montani della Val Verona. Nel 1342, Gualtieri di Brienne, Duca d'Atene, divenne signore di Firenze, ma fu cacciato dalla città il 26 luglio 1343. Pier Saccone approfittò della confusione e si alleò con Giovanni Visconti, Arcivescovo di Milano, per riconquistare le terre già sue. Pieve si ribellò ai Perugini e si diede al Vicario del Visconti, che a sua volta la consegnò a Maso Tarlati (dicembre 1352). Di costui, soprannominato "Tasano", resta la porta dell'antico castello, forse da lui restaurata, detta "Arco di Tasano". Ma la fortuna dei Tarlati era di nuovo in discesa. Firenze decise di portare la guerra direttamente in Casentino, culla della bellicosa famiglia. Nel 1359 cadde Bibbiena e l'anno dopo Chiusi. Guido, figlio di Pier Saccone, si ritirò a Pieve, ma la popolazione si ribellò e decise di darsi di nuovo ad Arezzo, che ormai faceva parte del Distretto Fiorentino (8 febbraio 1360). Ma gli anni seguenti videro il paese passare molte volte nelle mani dei Faggiolani, dei Montedoglio, dei Tarlati e degli Umbertini, mescolati al difficile gioco delle alleanze con Perugia o Firenze. Al territorio non giovavano tutti questi cambiamenti di padroni e fu così che i vari Comuni della Val Verona si sottomisero alla Repubblica di Firenze il 6 gennaio 1385.
Nel nuovo assetto amministrativo promulgato dai Fiorentini, Pieve diventò capoluogo della Podesteria della Val di Verona, a sua volta inglobata nel Vicariato d'Anghiari, unità giurisdizionale di cui facevano parte tutti i domini della Repubblica siti in Valtiberina e nel basso Casentino. Dati i recenti cambiamenti, la Comunità decise di redigere i nuovi Statuti, approvati il 26 dicembre 1386, giorno di Santo Stefano Patrono. Intanto, Firenze sistemò anche la controversa situazione dei Comunelli rurali della Podesteria. In particolare, l'Abbazia del Trivio rivendicava la possessione dei castelli dell'Alta Valle, concessi a Neri della Faggiola, Vicario dell'Abate, con la Pace di Sarzana del 1353, in premio all'opera svolta per cacciare i Tarlati. I Fiorentini risolsero la questione annettendo queste rocche alla Podesteria di Pieve e concedendo ai Camaldolesi il frutto di alcuni terreni (1399). Nel frattempo, le varie Comunanze rurali iniziarono a chiedere alla Repubblica di essere unite alla Pieve, riconoscendo nel Podestà e non nel Sindaco della Villa il loro rappresentante ufficiale. Iniziò il Comune di Pietranera, il 10 gennaio 1391, e ultimo fu quello di Roti, il 21 maggio 1403: ora la Podesteria aveva piena giurisdizione su 20 Comunelli. A essi si aggiunse Montalone, staccato dalla Podesteria di Caprese e Chiusi il 23 dicembre 1428. A Firenze, la Repubblica stava frattanto per cedere il potere alla famiglia Medici. Nel 1434 Cosimo il Vecchio divenne capo della Signoria, instaurando di fatto una dinastia, anche se ancora furono lasciate le Magistrature repubblicane. Lo seguirono Piero il Gottoso (1464, 1469) e Lorenzo il Magnifico (1469, 1492). Sotto quest'ultimo, la Toscana visse il suo momento più fulgido, caratterizzato da pace duratura, commerci floridi e trionfo delle arti. Anche Pieve visse una bella primavera. Fu ingrandito il paese con la costruzione di un nuovo quartiere chiamato "Borgo Maestro", caratterizzato da grandi e ariosi palazzi; per proteggere il nuovo rione fu eretta un'altra cerchia muraria con una nuova porta detta "Fiorentina", perché da lì partiva la strada che, attraverso il Passo dello Spino e quello della Consuma, menava a Firenze. La nuova cinta fu compiuta nel 1483. Sopra l'Arco di Tasano, al posto delle antiche mura ora inservibili, fu edificato un palazzo per l'alloggio dei Podestà e dei Vicari chiamati a reggere il nostro paese. Le nostre chiese si arricchiscono di opere dei Della Robbia, di Piero della Francesca, del Ghirlandaio e di altri artisti, lavori andati in gran parte perduti nell'alluvione del 1855. Questa bella epoca era però destinata a finire. Morto il Magnifico (1492), l'imbelle figlio Piero fu in breve cacciato da Firenze, perché non aveva opposto resistenza all'esercito invasore di Carlo VIII, re di Francia (1494). La città del Giglio ritornò Repubblica a tutti gli effetti. Retta prima da Girolamo Savonarola (1494, 1498) e poi da Piero Soderini (1502, 1512), Gonfaloniere a vita, Firenze riuscì a sopravvivere grazie all'aiuto dei Francesi, anche se perdette alcune terre e dovette subire molti attacchi, sobillati dai Medici fuorusciti. Nel 1502, Arezzo insorse contro i Fiorentini, proclamandosi Repubblica e cercando di rioccupare i suoi antichi domini, tra cui Pieve. Ma, nel medesimo anno, Vitellozzo Vitelli prese, senza combattere, tutta la Valtiberina. I Francesi, in breve, rioccuparono tutta la provincia, restituendo le terre alla Repubblica, loro alleata. Quest'alleanza fu però fatale. Luigi XII, re di Francia, in urto con papa Giulio II, decise di convocare a Pisa un Conciliabolo, che avrebbe dovuto deporre il Pontefice, e il Soderini aderì all'idea. Giulio II formò un'alleanza detta Lega Santa, che cacciò i Francesi Oltralpe e rimise Firenze in mano ai Medici (1512). Nonostante la turbolenza dei tempi, i Pievani erano impegnati in questo tempo nell'edilizia. Nel 1511 viene ultimata una fontana, addossata al Palazzo Pretorio e perciò detta "Fonte del Tribunale", abbellita da una stupenda terracotta invetriata dei Della Robbia, raffigurante la Samaritana al pozzo, ancora meravigliosamente visibile nella Sala del Consiglio Comunale. Nel 1514, s'inizia la costruzione, a ridosso di un bastione sul Tevere, di un monastero femminile, affidato alle Clarisse francescane. L'anno seguente, papa Leone X istituisce la diocesi di Sansepolcro, staccando la Valtiberina da quella di Città di Castello: ora la valle è unita alla Toscana anche dal punto di vista religioso. La guerra bussa ancora alle porte del paese, stavolta pesantemente, nel 1527. Il 18 aprile, l'esercito imperiale, composto di trentamila unità, in gran parte Lanzichenecchi, pone l'assedio al nostro castello. Le truppe, dopo aver messo a ferro e fuoco l'Alta Italia, sono dirette alla volta di Roma, imbaldanzite dalla prospettiva di un colossale saccheggio. Gli abitanti di Pieve si stringono attorno al Vicario, Antonio Castellani, risoluti a morire pur di non vedere la patria distrutta. I Lanzi lanciano l'assalto tre volte: invano. Il quinto giorno tolgono le tende e si dirigono verso Arezzo, devastando e depredando tutti i luoghi che incontrano lungo la marcia. L'Alma Roma cadrà dopo un solo giorno d'assedio e subendo la peggiore occupazione della sua storia. Durante il sacco di Roma era papa Clemente VII, un Medici. La sua prigionia in Castel S. Angelo fece scaturire un'insurrezione in Firenze, che cacciò un'altra volta gli eredi del Magnifico dalla città. La nuova Repubblica durò però solo tre anni. Essa cadde, dopo un eroico assedio, per opera degli Spagnoli di Carlo V, ormai veri padroni dell'Italia (1530). Clemente VII investì il nipote Alessandro del titolo di Duca di Firenze, mettendo definitivamente fine alle Magistrature repubblicane (1532).
Morto assassinato Alessandro (1537), salì al trono mediceo Cosimo il Grande (1537, 1574), che costruì l'ossatura di uno Stato modernamente accentrato. Nel 1545, Pieve fu elevata al grado di capoluogo di Vicariato, staccandosi definitivamente da Anghiari. La sua giurisdizione abbracciava dodici Comunelli del Vicariato di Badia Tedalda e nove del Vicariato di Verghereto. Il 23 maggio 1569, il Vescovo di Sansepolcro, Monsignor Niccolò Tornabuoni, istituisce, con tanto di Bolla, il Capitolo dell'Insigne Collegiata, formato da sei Canonici che devono aiutare l'Arciprete nella cura delle anime e negli atti di culto che si compiono nella chiesa parrocchiale, il secondo tempio, per importanza, di tutta la Diocesi. Nel 1577, la giurisdizione del Vicariato si allarga col territorio della Podesteria di Caprese e Chiusi. Nel 1589, un evento soprannaturale riporta Pieve alla ribalta: schiere di angeli, con torce accese nelle mani, si vedono, nottetempo, recarsi processionalmente dalla chiesa del Colledestro fin davanti ad un'Immagine sacra, dipinta nel muro di un'edicola che sorge lungo la strada che porta a Sansepolcro, non lontano dal Ponte Vecchio. Vari devoti che si sono a Lei raccomandati sono stati già graziati. Rodolfo Cupers, Arciprete di Pieve, istituisce un regolare processo canonico, che autentica per veri ben venticinque miracoli. Il I maggio 1590, fra un tripudio di popolo, viene posta la prima pietra del grandioso Santuario che custodirà la portentosa Immagine, da ora venerata sotto il nome di "Madonna dei Lumi", a ricordo degli angeli con le torce in mano. Nel 1591, il granduca Ferdinando I (1587, 1609), decreta che i Vicari di Pieve restino in carica per un anno e non per sei mesi come nel passato; inoltre, codesti funzionari saranno per l'avvenire nominati direttamente dal Granduca, segno che il paese ha assurto una grande importanza. Grazie a questa decisione, nei secoli seguenti l'ufficio vicariale sarà tenuto da membri delle più nobili e influenti casate dell'aristocrazia fiorentina. Nel 1625, giungono in paese i Cappuccini, chiamati per custodire l'ormai edificato tempio della Madonna dei Lumi. Difatti, il 10 ottobre 1627, Monsignor Filippo Salviati, Vescovo di Sansepolcro, consacra sia la chiesa che il convento, costruito con soldi della Comunità e di devoti fedeli. Il benessere di quegli anni doveva essere in parte interrotto dalla terribile pestilenza che infieriva in tutta la Penisola. A Pieve si manifestò il I agosto 1631 e si protrasse per tre mesi, portando al camposanto ben 128 anime. A Montalone e a Mignano il contagio fu più virulento e perdurò fino a metà dell'anno nuovo. Nel momento più acuto del contagio, il popolo si rivolse, supplice, alla Madonna dei Lumi: se la Vergine avesse fatto cessare le morti, i Pievani avrebbero fatto festa tutti gli anni a venire nel giorno dell'8 settembre, dì sacro alla Natività di Maria. Ottenuta la grazia, s'iniziarono quei festeggiamenti che, in pari data, si ripetono ancor oggi con immutato slancio, nonostante siano passati quasi quattro secoli. Poi la vita riprese il suo normale corso. Il paese era luogo frequentatissimo per i mercati e le fiere che vi si svolgevano; inoltre, la vicinanza con la Verna portava anche molti pellegrini, che qui alloggiavano o si rifocillavano prima di risalire la sacra montagna del santuario. Il mite governo dei Granduchi permetteva che la gente potesse tranquillamente dedicarsi agli affari. Nel 1737 si estinse, con Gian Gastone, la dinastia Medici. L'Imperatore, di cui la Toscana risultava, formalmente, essere un feudo, investì del titolo granducale Francesco di Lorena, che prese il nome di Francesco II (1738, 1765). Il medesimo divenne poi Imperatore (1745), si trasferì a Vienna e governò Firenze tramite un Consiglio di Reggenza. Alla sua morte, gli succedette il figlio Pietro Leopoldo (1765, 1790), il Sovrano più amato dai Toscani. Intelligente e interessato della vita dello Stato, seppe risvegliare l'industriosità del suo popolo dopo anni di stasi dovuti alle scarse capacità degli ultimi Granduchi medicei. Il 24 luglio 1775, il Sovrano varò un documento in cui venivano definiti i nuovi assetti amministrativi dello Stato. I vecchi Comunelli rurali perdettero ogni rimasuglio di autonomia e furono create delle Comunità con a capo un Capoluogo: nascevano i moderni Comuni. In virtù di tale Legge, il territorio di Pieve fu decurtato del popolo di Pratieghi, unito a Badia Tedalda. Si ha testimonianza di due visite di Pietro Leopoldo a Pieve: nel 1777 e nel 1787. Della prima si conserva un dettagliato resoconto e si rimane impressionati dall'acume con cui il Sovrano nota la condizione del territorio (sia dal punto di vista della viabilità che delle colture), delle imposte e dei funzionari statali. Il borgo gli appare sufficientemente popolato, con molti calzolai, alcune tintorie, due osterie, due macelli, due spezierie e sei mercerie: si sente che il Granduca è soddisfatto e paragona Pieve a Montevarchi. Intanto un ciclone si sta abbattendo sull'Europa: le idee della Rivoluzione Francese. Vinta la coalizione di Stati che avevano tentato di rimettere sul trono i Borbone, la Francia inizia a guardare Oltralpe (1796) e affida a un giovane generale di ventisette anni (Napoleone Bonaparte) un esercito per invadere l'Italia. Ferdinando III attua una politica neutrale, cercando di barcamenarsi fra la potenza del giovane corso e il fermento dei popoli, ma, nella primavera del 1799 è costretto a lasciare il Granducato. I Commissari francesi formano un Governo provvisorio, ma, nel maggio dello stesso anno, devono subire una grande sollevazione popolare nota col nome di "Viva Maria", dal grido che le folle lanciavano in onore della Madonna, assurta a simbolo di questa controrivoluzione. Domata in qualche modo la rivolta, l'occupazione francese si ridusse a una questione di forma più che di sostanza, in quanto la popolazione era molto attaccata al Granduca. In seguito al Trattato di Luneville (1801), la Toscana, col nome di Regno d'Etruria, passò al ramo di Parma della famiglia Borbone, prima con Ludovico I (1801, 1803) e poi con Carlo Ludovico (1803, 1807). Nel 1807, Napoleone inglobò il Regno d'Etruria all'Impero Francese e divise la Toscana in tre Dipartimenti. Il territorio di Pieve fu inserito nel Dipartimento dell'Arno, che aveva a Firenze il proprio Prefetto; i Vicari furono sostituiti da funzionari governativi che adottarono il nome di "Maire" (Sindaco). Nel 1809, la Toscana ritornò a essere un Granducato, avendo come Sovrana Elisa, sorella di Napoleone. Intanto a Pieve, nel 1810, si decide di costruire un pubblico Teatro, nelle sale attigue al Palazzo Pretorio. Il I ottobre dello stesso anno, Napoleone sopprime tutti gli Ordini religiosi maschili e femminili e ne incamera i beni. Da noi fanno le valigie i Minori Osservanti della Madonna dei Lumi e le Clarisse Francescane; quest'ultime fornivano un'educazione alle fanciulle del paese, in quanto il loro convento, dal 1786, fungeva anche da Conservatorio per educande. Il destino di Napoleone si gioca in Russia. Occupata Mosca, l'Imperatore è costretto a ritornare indietro, a causa dell'ostilità della popolazione e del freddissimo inverno: il ripiegamento si trasforma in una sanguinosa rotta. Approfittando della situazione, i nemici della Francia formano una poderosa coalizione e attaccano il Corso, che è costretto a ritirarsi nei confini nazionali. Il 18 settembre 1814, Ferdinando III rientra a Firenze, accolto dal popolo felice e, in breve, restaura le strutture amministrative della Toscana. Purtroppo però, un'altra grave sciagura si abbatte sullo Stato: il tifo. A Pieve, dal gennaio 1817 al febbraio 1818, muoiono del contagio 131 persone. Deceduto Ferdinando III, nel 1824 arriva Leopoldo II, anch'egli ottimo Sovrano. Nel 1833, con la riforma del Catasto, il territorio comunale di Pieve assume la superficie che ha tutt'oggi: cede a Chiusi della Verna il popolo di Compito, in cambio di quello di Castellare di Cananeccia e acquista una parte del soppresso comune di Montedoglio. Nel 1834, il Granduca giunge in visita nel nostro paese, accolto con entusiasmo dalla popolazione. Il 30 settembre 1838, cessò la sua attività l'ultimo Vicario granducale di Pieve. Dal giorno seguente la giurisdizione criminale sarebbe passata al Tribunale di Sansepolcro, mentre a Pieve avrebbe risieduto un Podestà con giurisdizione soltanto civile su Pieve e Caprese. Il Comune nel frattempo aveva superato i quattromila abitanti e i Pievani ritennero opportuno rifare la Collegiata, ritenuta ormai insufficiente per la popolazione. Il 29 settembre 1844, si posa la prima pietra dell'edificio, che verrà eretto su disegno dell'architetto fiorentino Federico Fantozzi. Il 1848 è un anno carico di avvenimenti, per l'Italia in particolare. In Toscana, Leopoldo concede lo Statuto, forma una Consulta di Stato, istituisce la Guardia Civica e permette a dei volontari di partecipare alla I Guerra d'Indipendenza. Ma l'esito sfortunato dei combattimenti scatena un movimento rivoluzionario e il Governo passa dai moderati ai democratici, che spingono il Granduca a lasciare Firenze (febbraio 1849). Questi però vi ritorna poco dopo (28 luglio), con l'aiuto degli Austriaci. Immediatamente Leopoldo abolisce le riforme concesse, pur continuando a condurre una politica tollerante. Nel 1850, il canonico Giovanni Sacchi scrive una Storia di Pieve, che è ancora oggi una preziosa miniera di notizie. Il sacerdote ci dice che il paese possiede tante botteghe artigiane di ogni mestiere e che il commercio è fiorentissimo, tanto che si tengono nove fiere all'anno e il mercato ogni lunedì. Il Comune mantiene sedici impiegati e tre funzionari, mentre cinque gendarmi vigilano sulla popolazione. Inoltre si trovano due farmacie, tre caffè, quattro tabaccherie e svariate drogherie. Il paese appare florido e ricco. Tanta operosità e opulenza fu però stroncata dopo pochi anni da un tremendo cataclisma. Il 14 febbraio 1855, in seguito a un mese di abbondanti piogge e nevicate, una parte del poggio di Belmonte si staccò e scese a valle, ostruendo il Tevere in piena, a sud del paese. La diga fece rifluire le acque del fiume e il giorno dopo Pieve era completamente sommersa. Quattro persone trovarono la morte e i superstiti vissero mesi di stenti. Il Granduca giunse a fare un sopralluogo e inviò cospicue somme. Da tutta la regione giunsero aiuti e il paese in breve fu svuotato dalle acque. I danni furono incalcolabili. Le case erano infradiciate e si dovettero abbandonare i primi piani, alzando il livello delle strade. Grandi opere d'arte andarono perdute per sempre e tutto l'arredo urbano risultò compromesso. Lentamente la vita riprese e si giunse al 1859, anno che vide risvegliarsi i sentimenti nazionali degli Italiani. Il 27 aprile, Leopoldo II abbandona definitivamente il Granducato e il Governo viene assunto da un Triumvirato, presieduto da Ubaldino Peruzzi. L'ardore patriottico invade anche Pieve, tanto che alcune persone chiedono al Vescovo di poter tenere il 28 maggio, alla Madonna dei Lumi, un Ufficio di Requiem in onore dei caduti di Curtatone e Montanara, recandosi processionalmente in chiesa con il Tricolore e la Banda musicale e leggendo, durante il funerale, discorsi patriottici all'indirizzo delle vittime. Ormai è tempo di riunire la Penisola: l'Emilia, la Romagna e la Toscana vengono annesse al Regno di Sardegna, in seguito a Plebiscito, il 22 marzo 1860.
Nella riorganizzazione amministrativa postunitaria, Pieve fu aggregata alla Provincia di Arezzo, divenendo sede di Pretura Mandamentale con giurisdizione anche su Badia Tedalda, Caprese Michelangelo e Sestino. Giungono i vènti del fervore patriottico, tanto che Pieve vanterà anche un volontario garibaldino caduto per le ferite riportate nella battaglia di Mentana (Odoardo Corazzini). Con una legge varata il 7 luglio 1866, lo Stato sopprime, imitando Napoleone I, tutti gli Ordini Religiosi e ne incamera i beni. Di conseguenza, i Francescani della Madonna dei Lumi sono costretti a lasciare il convento omonimo; il Comune però rivendica il possesso della chiesa e del monastero, in quanto eretti a spese della Comunità. Il Governo riconosce giuste le ragioni del Municipio e così la chiesa resta aperta al culto, officiata da un sacerdote secolare, e il convento diviene sede di varie Associazioni benefiche: Confraternita di Misericordia, Congregazione di Carità, Opera Laicale della Madonna dei Lumi. Anche la bella Biblioteca dei Frati Minori, ricca di preziosi incunaboli e di diverse cinquecentine, diviene proprietà comunale e viene trasferita al terzo piano del Palazzo Pretorio. Il 15 agosto 1869, in seguito alla legge del 15 agosto 1867, viene soppresso il Capitolo dei Canonici della Collegiata, istituito giusto tre secoli prima. Formato inizialmente da sei sacerdoti, col tempo si era ampliato fino a comprendere dieci canonici. Da questo periodo, la Parrocchia di Pieve sarà retta dall'Arciprete, coadiuvato da un Cappellano in funzione di viceparroco. Nel 1874, grazie soprattutto alle elargizioni di pii benefattori, viene inaugurato l'Ospedale Civile, che avrà la sua sede presso l'ex convento della Madonna dei Lumi. Il Regio Governo, compiuta l'Unità d'Italia, inizia a interessarsi dei problemi periferici delle Province. Uno fra i più gravi era quello dei collegamenti viari. Nel 1829, Leopoldo II aveva fatto costruire la "Via Provinciale della Valle", l'arteria Pieve-Sansepolcro. Nel 1885 viene completata la strada Pieve-Caprese Michelangelo, mentre, nel 1886, vengono iniziati i lavori per la "Via Tebro-Romagnola", arteria che deve congiungere Pieve con la Romagna, che viene interrotta, per mancanza di fondi, nei primi anni del Novecento, al ponte di Valsavignone. Nel 1881 si apre al culto la nuova chiesa Collegiata. La cronica mancanza di fondi e i danni provocati dall'alluvione del 1855 ne hanno protratto la costruzione per quasi quarant'anni. C'è ancora tanto da rifinire e per la consacrazione si deve attendere il 29 Settembre 1906, a settant'anni esatti dalla stesura del progetto. Questo scorcio di secolo vede il Comune impegnato in varie opere di pubblica utilità: sistemazione della viabilità nel centro urbano e tra il Capoluogo e le varie frazioni; costruzione dei cimiteri rurali nelle parrocchie di campagna; assistenza agli indigenti con varie forme caritative. Anche l'assistenza sanitaria è garantita dal Municipio, che mantiene due medici condotti, due ostetriche e un veterinario; paga la retta anche ai poveri che, per varie malattie gravi, sono costretti a recarsi in strutture sanitarie di altre città. Il Novecento porta con sé le ansie e i fermenti di tutta la società moderna. Il mondo chiuso e ovattato delle nostre campagne conosce orizzonti meno angusti. Uno dei pregi della leva militare è che i giovani hanno la possibilità di vivere in grandi città e, al ritorno, raccontano a chi è rimasto a casa le proprie esperienze personali e le diverse esigenze del vivace mondo cittadino. Nel 1908 diviene "pievano" lo scrittore fiorentino Giovanni Papini (1881-1956), che sposa una ragazza di Bulciano. Questo alpestre luogo ha incantato lo scrittore, tanto che decide di costruirvi una villa perché i suoi soggiorni siano sempre più lunghi e frequenti. Qui Papini si convertirà al Cattolicesimo e vi chiamerà a villeggiare anche Prezzolini, Soffici e Ungaretti. Nel 1911, il Governo di Giolitti dichiara guerra alla Turchia per conquistare la Libia e tanti giovani di Pieve partono per l'Africa al canto di "Tripoli, bel suol d'amore". Al loro rientro, la popolazione li attende festosa in Piazza, assieme alla Filarmonica che intona la "Marcia Reale" e altre canzoni patriottiche. Ma se la guerra contro la Turchia fu una passeggiata militare, non così lo fu la Grande Guerra. Tra il 24 maggio 1915 e il 4 novembre 1918, furono chiamati alle armi oltre cinquecento giovani Pievani, raggruppati in ogni Arma e Specialità del Regio Esercito e dislocati in ogni settore del vasto fronte bellico. Il bilancio in vittime fu pesantissimo: furono 141 i caduti, sia in combattimento che per le ferite riportate negli scontri. Il paese si vestì a lutto e dedicò ai giovani perduti un grande giardino, nella parte nord del Capoluogo, quel "Parco delle Rimembranze", ove per ogni morto era stato piantato un albero con infissa una targa con i dati del caduto. A questa grande sciagura se ne aggiunsero altre: i terremoti violentissimi del 26 aprile 1917 e del 29 giugno 1919 e l'epidemia di Spagnola. Tanti furono gli edifici danneggiati dal sisma, specialmente nella parte meridionale del territorio comunale; per fortuna, si lamentò un'unica vittima, un'anziana donna calpestata dalla folla impaurita che usciva dalla chiesa della Madonna dei Lumi, ove si stava celebrando la Messa. L'Italia intanto era divisa da opposte passioni politiche e una non flebile eco di questi clamori si faceva sentire anche da noi. Il Fascismo reclutava sostenitori nei tanti giovani reduci della guerra, sensibili al problema della "Vittoria mutilata". Nell'ottobre 1922, furono dodici i Pievani che parteciparono alla marcia su Roma e il Comune, due anni dopo, deciderà di sistemare nella Sala Consiliare una targa marmorea coi nomi degli "eroici legionari", poi tolta nel 1944. Con una Legge del 30 settembre 1923, il Governo riordina il Sistema Giudiziario della Penisola. In conseguenza del Decreto, la Pretura Mandamentale di Pieve viene soppressa e tutto il Circondario cade sotto la giurisdizione del Tribunale di Sansepolcro. Anche le carceri vengono chiuse e al loro posto verranno costruiti gli alloggi per le famiglie dei Carabinieri. Nel 1924 viene eretto, nel Santuario della Madonna dei Lumi, l'"Altare dei Caduti", che viene ornato con una tavola del XV secolo, opera di fra Bartolomeo da S. Marco, inviata dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, dietro richiesta del Comune. Nel 1925 viene collocato in Piazza S. Stefano il "Monumento ai Caduti", opera dello scultore Aurili di Firenze. L'opera non riscosse entusiasmi, anzi sollevò vibranti critiche. Fu giustamente fatto osservare che il soldato raffigurato non portava l'elmetto italiano, bensì quello dell'Esercito inglese. Il 10 marzo 1927, in virtù del Decreto del 3 settembre 1926, decade il Consiglio Comunale di Pieve, sostituito da un Podestà di nomina governativa e non eletto dal popolo. Durante il Regime ricopriranno questa carica Francesco Olivoni (1927-1929) e Andrea Collacchioni (1929-1943), entrambi possidenti e membri delle famiglie più in vista del paese. Il 14 febbraio 1929 viene istituita la "Scuola di Avviamento al Lavoro", intitolata a Don Paolo Ortolani, un sacerdote che, morendo, aveva lasciato i suoi averi per questo nobile scopo. La Scuola continuerà la sua funzione per oltre trent'anni, insegnando a un'intera generazione molti mestieri. Nel 1931 viene dipinto dal pittore Morgari un affresco sulla lunetta della facciata della chiesa Collegiata, raffigurante la "Lapidazione di S. Stefano". Nel 1934 viene iniziata la costruzione della "Strada Tebro-Casentinese", che, attraverso il Passo dello Spino, deve collegare la Valtiberina al Casentino, ma l'arteria sarà terminata solo negli anni Sessanta. Viene invece ultimato il tratto stradale Valsavignone - Passo di Montecoronaro - S.Piero in Bagno, interrotto da trent'anni, in quanto il Duce ha scoperto che questa è la via più breve per recarsi da Roma alla natia Predappio. Il 1935 fu l'anno di un'altra avventura coloniale "all'italiana": la conquista dell'Etiopia. Il Regime fu maestro nell'organizzare un'accattivante propaganda in favore dell'impresa e molti furono i giovani che s'imbarcarono per l'Africa al canto di "Faccetta nera". In otto mesi l'"Impero" fu fatto. Tra i soldati di Pieve impegnati nel conflitto ne morì uno. Il 21 aprile 1936 si compì l'VIII Censimento Generale della Popolazione del Regno e delle Colonie. In tale occasione si registrò il dato più alto di abitanti che il Comune di Pieve abbia avuto nella sua storia: 5753 unità, divise tra il Capoluogo e le venti Parrocchie rurali o Frazioni allora esistenti. Le campagne erano allora molto abitate e i contadini conducevano i poderi sia a mezzadria che come coltivatori diretti, mentre in paese si contavano molte botteghe artigiane. Il 10 giugno 1940, Mussolini dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Anche i giovani di Pieve Santo Stefano furono richiamati alle armi e sparsi nei tanti fronti bellici: Alpi Occidentali, Jugoslavia, Albania, Grecia, Unione Sovietica, Libia e Africa Orientale. In tre anni vestirono la divisa più di seicento soldati pievani e di loro quarantasette non fecero più ritorno, deceduti sia in combattimento che in prigionia. La caduta del Fascismo e l'annuncio dell'Armistizio furono accolti con entusiasmo dalla popolazione, ma l'occupazione tedesca fece presto svanire il sogno della fine delle ostilità. Nel dicembre 1943 fu mandato a Pieve un Commissario Prefettizio, in sostituzione del Podestà, come rappresentante della Repubblica Sociale, mentre, sopra Valsavignone, s'iniziavano a erigere gli apprestamenti difensivi della Linea Gotica, diretti dall'Organizzazione Todt. La rottura della linea di Cassino (maggio 1944), pose Pieve nelle immediate retrovie del fronte. I Tedeschi iniziarono a minacciare la popolazione in ogni modo, sequestrando il bestiame, taglieggiando i contadini, usando violenza verso le donne e, soprattutto, dando la caccia ai renitenti alla leva. Nei primi giorni di agosto 1944, i Germanici ordinarono lo sfollamento degli abitanti del territorio comunale; i poveri profughi furono mandati parte verso Rimini e parte verso Cesena, poi raggiunsero città e paesi della Valle Padana, da cui tornarono solo nella primavera del 1945. Poterono restare solo i degenti dell'Ospedale e pochissimi altri, scampati alle maglie dell'invasore. I Tedeschi si apprestavano a resistere a oltranza nel nostro paese, in quanto Pieve faceva parte integrante degli avamposti della Linea Gotica. In particolare, la parte a nord del Capoluogo si prestava benissimo a essere difesa, in quanto la valle del Tevere, dal Pozzale in su, si stringe, formando un collo di bottiglia incassato tra le montagne. Negli ultimi giorni di agosto, i Tedeschi minarono le case di Pieve e le fecero saltare in aria. Si salvarono soltanto le chiese, il Comune e alcune strutture situate attorno alla Piazza delle Oche. Ancora non si spiega perché questi edifici furono risparmiati; c'è chi dice per intervento dell'Arciprete Don Guglielmo Bastonero, ma la cosa non è documentabile. Il 31 agosto giunsero finalmente i liberatori Inglesi. Intanto una parte di profughi iniziava a ritornare: a essi non bastarono le lacrime per piangere, alla vista di questo apocalittico scenario. L'8 settembre esplose una bomba a orologeria piazzata nella Torre Civica, facendo crollare il campanile sopra una parte del Palazzo Comunale. Fu ritenuto un miracolo, avvenuto proprio nel giorno della festa della Madonna dei Lumi, il fatto che, soltanto il giorno dopo, gli uffici del Comune avrebbero dovuto accogliere alcune famiglie appena rientrate a Pieve. Il fronte si stava ritirando a Nord, poiché gli Inglesi avevano sfondato parte della Linea Gotica a ridosso dell'Adriatico, occupando Rimini e altre città della costa. Di conseguenza, tutto il territorio comunale fu liberato dagli Alleati a metà settembre. Il giorno 14 riprese la vita amministrativa in paese con l'insediamento del Consiglio Comunale, che elesse Filippo Perugini Sindaco ed Egidio Capaccini Presidente del Comitato di Liberazione. Il 25 settembre s'iniziarono a sgombrare le macerie. Iniziò anche la conta dei danni: 35 persone trucidate dai Tedeschi; 76 uccisi per scoppio di mine; il 99% delle case abbattute nel Capoluogo e il 30% nel paese; bestiame quasi totalmente razziato; 1200 ettari cosparsi di mine; 103 chilometri di strade distrutti. Il I ottobre, il Governatore militare alleato vietò di abitare nel Capoluogo, in quanto insicuro per colpa delle mine inesplose. Il Comune trasferì i propri uffici nella Villa Schianteschi, in località Civetta. I militari inglesi suggerirono di ricostruire il paese nella piana a Sud di Formole, in posizione solatia, ma i Pievani opposero un netto rifiuto all'idea di abbandonare la vecchia Sulpizia. E così il paese risorse dov'era, ma non com'era. La mancanza di denaro e la necessità urgente di riavere delle abitazioni, costrinsero i muratori a un'affrettata ricostruzione, che se da un lato ricalcò la planimetria e l'ubicazione degli edifici preesistenti, dall'altro non rispettò lo stile rinascimentale delle vecchie case, sostituite da palazzi di architettura contemporanea. Gli abitanti furono ricoverati alla bell'e meglio in baracche di legno, erette nel Giardino "Collacchioni" al Ponte Nuovo. In tale disastrosa situazione, Pieve conobbe una grande fortuna. Saliva nel firmamento della politica italiana un suo figlio, il Professor Amintore Fanfani. Nato nel febbraio del 1908, era docente all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano quando entrò in politica, iscritto nelle fila della Democrazia Cristiana. Deputato alla Costituente, fu nominato Ministro del Lavoro (1947) e in tale veste legò il suo nome alla costruzione di alloggi popolari per famiglie bisognose. A Pieve queste case furono costruite al Ponte Vecchio, al Campo alla Badia e al Rialto, dando un tetto a tanti che avevano perduto tutto. Gli anni Cinquanta videro iniziare il fenomeno della fuga dalle campagne. I contadini lasciarono i poderi montani e si diressero in pianura, specialmente verso Firenze, o preferirono andare a fare gli operai nelle grandi città del Nord Italia; altri emigrarono oltre confine, specialmente in Svizzera, Germania o Argentina. Il Comune, retto da giunte di Sinistra, cercò di frenare la fuga degli abitanti, portando l'energia elettrica nelle frazioni e iniziando la costruzione di acquedotti, onde migliorare le condizioni di vita dei coloni, ma invano: la fuga pareva inarrestabile. Nel 1956, Fanfani, diventato uno dei politici più in vista del Paese, inviò a Pieve l'Ing. Alberto Maria Camaiti, anch'egli natio del paese, perché diventasse Sindaco. L'Ingegnere riuscì nell'impresa e, grazie agli aiuti mandati da Roma, in breve ridette ossigeno all'economia paesana. In pochi anni furono impiantati in loco: l'Azienda di Stato per le Foreste Demaniali, destinata all'opera di rimboschimento dei nostri monti, che erano brulli e privi di vegetazione; il Vivaio Forestale (il più grande d'Italia), per la selezione dei semi e delle piante per il rimboschimento; la Stazione del Corpo Forestale dello Stato, per la custodia dei boschi e la salvaguardia dagl'incendi; l'Istituto Professionale di Stato per l'Agricoltura, con Convitto annesso, sorto nel 1961, che da allora ha formato migliaia di studenti provenienti da tutta la penisola, i quali, in seguito, sono diventati i dirigenti della politica agricola e forestale nazionale. Tutti questi Enti in breve dettero lavoro ai disoccupati di Pieve e anche parte degli emigrati ritornò a casa, per lavorare nel paese natale. Di questo periodo è anche l'apertura della Statale 208, che collega la Valtiberina col Casentino, attraverso il Passo dello Spino e la Verna. Anche l'assetto urbanistico del Capoluogo fu in parte trasformato, ma qui l'Amministrazione non incontrò il favore della popolazione. Nel 1958, il Monumento ai Caduti da Piazza Santo Stefano fu trasportato nel Giardino "Collacchioni" al Ponte Nuovo, mentre, negli anni seguenti, furono abbattuti la Fonte del Tribunale, Porta Fiorentina e il Bastione "Lamponi" delle antiche mura. Quest'ultimi due furono atterrati per costruire il nuovo palazzo dell'Azienda Forestale e così, dopo aver resistito alle cannonate dei Lanzi del 1527 e alle mine dei Tedeschi del 1944, caddero per mano degli stessi Pievani. Il 13 aprile 1957 il Gonfalone di Pieve Santo Stefano fu insignito della "Croce di Guerra al Valor Militare", unico Comune a poterla vantare fra i trentanove della Provincia di Arezzo, per le tante sofferenze subite dalla popolazione durante il passaggio del fronte di guerra. Risale al recente 2005, invece, l'arrivo sul Gonfalone comunale dell'Emblema Araldico dell'Istituto del Nastro Azzurro. Negli anni Sessanta sorsero anche alcune fabbriche; in particolare nacque la Tratos Cavi, per opera dell'Ingegner Egidio Capaccini, che, a tutt'oggi, assorbe gran parte della maniodopera locale. Il decennio Settanta vide ingrandirsi il paese verso la zona della Fornace e del Poggiolino delle Viole: ormai l'emigrazione era finita. Fu compiuta la Superstrada E45, che collega Orte con Ravenna e che, se un pò ha trasformato il bucolico paesaggio, di certo ha tolto l'Alta Valle del Tevere dall'isolamento. Nel 1980, lasciarono il paese le Suore Orsoline, che da decenni gestivano l'Ospedale Civile, la Casa di Riposo "Biozzi" e l'Asilo Infantile "Umberto I". Le religiose furono sostituite, negli ultimi due Enti, da maestranze del Comune; l'Ospedale invece sopravvisse pochissimi anni e poi fu chiuso, vittima, come tanti altri, dell'accentramento delle strutture nei Capoluoghi di Vallata. Al suo posto rimase il Distretto Sanitario. Nel 1984, nacque, da un'idea del giornalista Saverio Tutino, l'Archivio Diaristico Nazionale, che raccoglie migliaia di diari, memorie, epistolari e testimonianze inviati da ogni parte d'Italia. La grande risonanza della Fondazione ha fatto sì che Pieve fosse ribattezzata "Città del Diario". Dal 2006 la "Città del Diario" italiana è gemellata con La Roca del Vallès, "Città del Diario" catalana. L'ultimo ventennio del Novecento è stato caratterizzato da un intenso fenomeno di urbanizzazione a Nord e a Est del Capoluogo, tanto che il paese risulta triplicato rispetto alla superficie abitativa d'anteguerra. Il relativo benessere e la quasi mancanza di disoccupazione hanno tamponato il fenomeno migratorio e stabilizzato il calo demografico. Anche gli edifici pubblici, sia civili che religiosi, sono stati di recente restaurati, mentre si è provveduto a pavimentare in pietra serena le Piazze Pellegrini, Logge del Grano e Santo Stefano, sostituendo il brutto catrame. L'ultimo evento significativo riguarda la dedicazione di Piazza della Repubblica alla memoria di Amintore Fanfani, deceduto a Roma il 20 Novembre 1999. Il grande statista, durante la sua lunghissima carriera politica, è stato: Presidente dell'Organizzazione delle Nazioni Unite; Presidente del Senato della Repubblica; sei volte Presidente del Consiglio dei Ministri; innumerevoli volte ha ricoperto importanti dicasteri di molti Governi della Repubblica; Segretario della Democrazia Cristiana. Il 19 novembre 2000, a un anno dalla scomparsa, alla presenza di moltissime Autorità e di strabocchevole folla, la piazza principale di Pieve è diventata Piazza Fanfani, dedicata cioè al più illustre, finora, figlio del nostro paese.